
Grateful Dead | Anthem To The Sun (1968)
Un mixing allucinato per catturare lo spirito di una band leggendaria
All’interno della scena psichedelica californiana e più in generale americana degli anni ’60 i Grateful Dead occupano certamente un posto d’onore se non addirittura primario poiché incarnarono più di chiunque altro lo spirito, l’essenza stessa di quel movimento musicale e culturale.
Lontani dalle istanze rivoluzionarie, sociali o politiche di molti dei gruppi dell’epoca, i Grateful Dead coniarono, per lo meno agli inizi, uno stile totalmente incentrato sul “trip” lisergico espresso soprattutto attraverso lunghe, caotiche ed estenuanti jam collettive che finirono ben presto per rappresentare un’intera ideologia non solo di libertà espressiva ma più in generale di fuga dal Sistema. Un’estetica, questa, che si riusciva ad esplicare pienamente soltanto nella dimensione live, difficilmente contenibile nel formato classico dell’album.
La formazione si era creata intorno al 65 a partire dalle ceneri di una jug band formata dai chitarristi Jerry Garcia e Bob “Weir” Hall e dal tastierista Ron “Pigpen” Mc Kernan, dedita prevalentemente al bluegrass e alla musica tradizionale americana; con l’ingresso del batterista Bill Kreutzmann e soprattutto del bassista Phil “Lesh” Chapman, di formazione classica e con esperienze jazz, le sonorità country cedettero il posto a quelle elettriche del rock acido californiano.
In breve tempo vennero scritturati dallo scrittore Ken Kesey, uno degli esponenti di prim’ordine della controcultura statunitense degli anni 60, per girare l’America con il suo “magic bus” ed esibirsi dal vivo durante i cosiddetti “acid test”, vere e proprie feste improvvisate in cui Kesey studiava le reazioni e i comportamenti degli invitati se sottoposti a sostanze allucinogene (prevalentemente LSD, marijuana e mescalina) e ambientazione psichedelica. Fu in queste occasioni che i Dead iniziarono a prendere in prestito dal jazz il concetto di improvvisazione collettiva e ad applicarlo al rock per creare un fiume musicale privo di schemi prefissati che accompagnava l’ascoltatore nel suo “viaggio” lisergico, effettuando un’operazione rivoluzionaria all’interno della forma canzone rock e che di li a breve avrebbe trovato altri grandi fautori (i Cream di Eric Clapton in primis).
Nel ’67 il gruppo venne scritturato per registrare il primo album, “Grateful Dead”, che però, per motivi commerciali imposti dalla casa discografica, finì con l’essere una raccolta di brevi brani della tradizione country-blues americana arrangiati in chiave rock secondo modalità convenzionali, lasciando insoddisfatti tutti gli elementi del gruppo che videro snaturata la propria musica. In particolare il disco non riusciva a catturare quello spirito che la band riusciva ad esprimere durante le esibizioni dal vivo.
Fu così che tra l’autunno del ’67 e l’inverno del ’68 i Grateful Dead decisero di incidere un nuovo lavoro che più li rappresentasse, con l’intento esplicito di sperimentare e sfruttare lo stato dell’arte degli studi di registrazione per esplorare nuove sonorità. Il progetto prese una piega sempre più netta con l’ingresso di un secondo percussionista, Mickey Hart, e soprattutto del pianista Tom Constanten che aveva studiato composizione con Luciano Berio, Karlheinz Stockhausen e Pierre Boulez e che avrebbe contribuito in maniera determinante a ricreare all’interno dell’album le atmosfere lisergiche che il gruppo cercava di esprimere.
“Anthem To The Sun” fu il frutto di mesi interminabili passati in studio di registrazione, alternati a brevi tournee in cui il gruppo testava dal vivo il nuovo materiale. Le registrazioni furono molto faticose e dispendiose per la casa discografica, soprattutto a causa delle richieste assurde dei componenti della band, il più delle volte in stato alterato a causa delle droghe (basti pensare che il bassista Phil Lesh pretese di effettuare delle registrazioni di aria in diverse località della California e mixarle insieme per farne una base ritmica). Le iniziali ambizioni del gruppo furono infatti ben lontane dalle reali capacità di tradurre concretamente in sala di registrazione le loro visioni e furono altamente improduttive, tanto da spingere il produttore Dave Hassinger ad abbandonare il progetto per la totale inaffidabilità e incapacità dei membri della band.
La Warner Bros decise così di lasciare totale indipendenza nel terminare le registrazioni dell’album ai Dead che intrapresero a quel punto una strada del tutto inusuale e innovativa, usando un approccio più vicino alla musica elettronica o alla musica concreta che al rock, assemblando come in un collage sonoro diverse parti registrate in studio e sovrapponendole ad altri strati ricavati da registrazioni effettuate durante alcune esibizioni dal vivo degli stessi brani in quello stesso periodo.
Seduti dietro la console, anche grazie all’ausilio del nuovo sound engineer Dan Healy, Garcia e Lesh giocarono molto con la stereofonia e il panning, “suonando” letteralmente il banco del mixer come fosse un vero e proprio strumento al servizio delle atmosfere allucinate. La band inoltre usò un vasto assortimento di strumenti in studio per enfatizzare le tracce live che erano la base di ogni brano: kazoo, crotali, clavicembalo, timpani, gong, güiro, tromba e un piano preparato secondo la lezione di John Cage.
L’apertura del disco è affidata a That’s It For The Other One, una suite in quattro movimenti che occupa quasi metà della prima facciata e che rappresenta probabilmente il vertice dell’intero album, nel suo fondere i diversi stili del gruppo, dal country al blues rock, dalla jam modale tipica del jazz all’elettronica avanguardistica di Stockhausen. La prima sezione, “Cryptical Envelopment”, inizia sotto la guida del canto di Garcia e dell’organo di Pigpen con toni dimessi e delicati quasi a voler accompagnare con dolcezza l’ascoltatore alle soglie di un sogno; la dimensione onirica viene ulteriormente enfatizzata non appena la voce di Garcia viene filtrata attraverso gli speaker Leslie (solitamente usati per l’organo) prima di ritornare al tema iniziale. Un crescendo nevrotico e gorgogliante di percussioni introducono a questo punto alla seconda parte del brano, “Quadlibet For Tender Feet”, una jam caotica di blues rock che sarebbe stata ricordata dai fan semplicemente come “The Other One” e che rappresentò il veicolo improvvisativo per eccellenza della band durante le loro esibizioni nelle successive tre decadi insieme alla successiva parte corale di “The Faster We Go The Rounder We Get“ in cui il testo fa continui riferimenti al magic bus dei Merry Pranksters, primo nome del complesso, vero veicolo “fisico” del gruppo durante le loro esibizioni negli acid test di Ken Kesey. In questa sezione vengono intrecciati spezzoni tratti esibizioni dal vivo in diverse città a parti registrate in studio: le parti si fondono di continuo l’una nell’altra in maniera continua e fluida dando quella sensazione di reminiscenza tipica del sogno in cui si fa sempre più labile il riuscire a determinare la fine del reale e l’inizio del ricordo e del’immaginazione. Ripreso il tema iniziale il brano sfuma nella sezione finale, la sperimentale e spettrale “We Leaved The Castle“, affidata al piano preparato e agli effetti elettronici di Constantein che porta alle estreme conseguenze le atmosfere lisergiche precedentemente accennate dirottandole verso ambientazioni fumose, cupe e allucinate.
La prima facciata si chiude con l’altrettanto dilatata “New Potato Caboose”, condotta dalle iniziali atmosfere eteree create dal tintinnio di vibrafoni, clavicembali, chitarre 12 corde e gong sotto i ricami chitarristici di Garcia e Weir prima di gonfiarsi in una lunga jam modale in cui ancora una volta parti in studio e parti dal vivo vengono mixate insieme, e da “Born Cross Eyed”, il brano probabilmente più strampalato e freak del disco con i suoi arrangiamenti dai tempi irregolari, il canto sfuggente di Lesh e l’uso intensivo di sovraincisioni (persino un paio di secondi di “aria densa” registrata mixando registrazioni di aria nel deserto californiano e a Los Angeles).
La seconda facciata dell’album è interamente occupata da un lunghissimo medley di due brani di cui il primo, “Alligator”, segna l’inizio della proficua collaborazione del gruppo con il paroliere Robert Hunter, vecchio amico di Garcia; il tono scanzonato da jug band dei primi minuti lascia ben presto il posto a una danza tribale incentrata sulle percussioni di Hart e Kreutzmann che portano a una sorta di stato di ipnosi collettiva e delirio sul quale si innestano i suoni lancinanti delle chitarre e dell’organo e che nelle esibizioni dal vivo poteva arrivare a sfiorare i 20 minuti.
Il viaggio lisergico del bus dei Dead culmina con “Caution (Do Not Stop On Tracks)” in cui la musica viene continuamente rallentata e accelerata, mentre feeback dissonanti, rumori, sibili e silenzi la fanno da padrona, mutando continuamente momenti di cacofonia a stati fumosi e silenti che per certi versi anticipano lo space rock.
Anthem ToThe Sun risulta sicuramente l’album più psichedelico e sperimentale dei Grateful Dead anche se probabilmente non raggiunge la maturità compositiva del successore, l’epocale “Aoxomoxoa” del 1969 e nonostante gli sforzi non riesca a catturare a pieno il vero spirito live del gruppo, che verrà invece incastonato in quel gioiello che è il doppio “Live Dead”, sempre del 69, che chiuderà in maniera magistrale la carriera psichedelica dei Dead prima di un’altra altrettanto gloriosa nei territori del country rock. Ciononostante il disco rimane indiscutibilmente una vera e propria miliare del rock che ha segnato una generazione.
Se ne consiglia caldamente l’ascolto in cuffia