
Gong | Angel's Egg (1973)
Il secondo capitolo dell'intergalattica saga "Radio Gnome Invisible" di Daevid Allen & Co.
La seconda parte della trilogia Radio Gnome Invisible prese virtualmente piede in Francia, registrata nell’agosto del 1973 al Manor Mobile 24 del Pavillon du Hayward per poi essere mixata ai Manor Studios di Oxford. L’equipe spaziale apportò alcuni cambiamenti e sulle note di copertina viene presentata con i curiosi epiteti dei propri alter-ego: il front-man Daevid Allen (Dingo Virgin) con la sua compagna Gilli Smyth (Shakti Yoni) alla voce, Tim Blake (Hi T. Moonweed – the favorite) al sintetizzatore, Steve Hillage (Sub. Capt. Hillage) alle chitarre, Mike Howlett (T. Being esq.) al basso, Mireille Bauer (Mireille de Strasbourg) alle percussioni, Didier Malherbe (Bloomdido Bad De Grass) agli strumenti a fiato ed il nuovo arrivato Pierre Moerlen (Pierre de Strasbourg) alla batteria, che sostituì Rachid Houari sullo sgabello, portando una ventata di lucido jazz.
Fin da subito, il suono dei Gong su Angel’s Egg appare più coeso e versatile rispetto al precedente capitolo Flying Teapot, anche se l’atmosfera generale non cambia poi molto; diviso in 13 brevi pezzi, che scorrono come un lavoro costante, il disco alterna lo space-fusion a parti più psichedeliche, offrendo estese sezioni di jazz e qualche spezzone hard-rock nel mezzo. Il sassofonista Malherbe sembra essere stato largamente ispirato dall’ambiente parigino durante il periodo delle registrazioni, in quanto si ritrovano delle forti influenze romantiche degli anni Sessanta ma, sbirciando sotto la coperta lisergica, scoviamo anche gli elementi che hanno caratterizzato gran parte della discografia dei Gong: percussioni etniche, sussurri erotici, chitarre acide e sintetizzatori cosmici.
Concettualmente, nella seconda parte della trilogia ritroviamo il protagonista Zero addormentato a causa della pozione che ha appena bevuto, che si ritrova così a fluttuare nello spazio. Dopo essersi imbattuto nel pianeta Gong, dove passa del tempo con una prostituta che lo presenta alla dea lunare Selene, i folletti Pot Head Pixies gli spiegano come sono in grado di volare con le teiere (Flying Teapots), menzionando il loro “gliding” (che è anche la peculiare tecnica chitarristica di Syd Barrett, poi adottata da Allen). Infine Zero viene condotto all’Invisible Temple of Planet Gong, che è invisibile in quanto non servono statue da idolatrare quando all’interno ci sono i 32 Octave Doctors: l’Angel’s Egg del titolo è proprio il grande occhio mandala che compare su molte delle copertine dei dischi dei Gong, una sorta di impenetrabile campo magnetico protettivo dei “Dottori dell’Ottava”, da cui sono nati i Pot Head Pixies e in cui finiranno una volta “riciclati” alla fine dei tempi. In seguito, a Zero viene rivelato il grande piano: ci sarà un Grande Banchetto di freaks che lui dovrà organizzare sulla Terra e a ciascuno dei commensali verrà acceso un terzo occhio dallo Switch Doctor (il Dottore dell’Ottava di stanza sulla Terra, che risiede nell’Invisible Opera Company of Tibet) – questi trasmette tutti i dettagli ai Gong di Daevid Allen tramite il Bananamoon Observatory, situato in diverse località ad alta energia, auspicando in tal modo l’avvento di una Nuova Era sul nostro pianeta. Qui si conclude Angel’s Egg.
I primi otto minuti sono costituiti da paesaggi sonori ambient, con un sintetizzatore che ribolle dietro ad una voce straniata in Other Side of the Sky, offrendoci un antipasto di celestiali sax, effetti delay e poche righe ridicole (“Hare hare supermarket! Hare hare London bus! Hare hare ladies’ lavatory!“), un intrigante preludio alla tantrica e poliritmica Sold to the Highest Buddha, con i suoi repentini spostamenti sonori ed una paradossale fluidità che viene coronata da un ritornello piuttosto orecchiabile.
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Steve Hillage cerca di smuovere ulteriormente le acque con la sua chitarra nella tintinnante Castle in the Clouds, in una tipica atmosfera Gong che funge da coda jazz alla traccia precedente. Tuttavia, quando Zero incontra una prostituta dall’accento francese, le cose si fanno piuttosto bizzarre: la Smyth recita il suo afoso Prostitute Poem in un ambiente che pare un lounge-bar nella zona parigina di Pigalle, mentre a poco a poco il poema sembra trasformarsi in un ironico spogliarello sensuale bilingue, con una buona dose di divertimento, svestendo anche i panni dello space-rock per ricoprirsi di agonie elettroniche e trame arabeggianti. Incredibile pure il testo, specialmente quando la compagna di Allen sussurra lasciva “I’m eating your mind, I’m eating your body“, in un momento storico in cui la censura sui temi sessuali era la norma.
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La fulminea e carnale Givin’ My Love to You protrae la baldoria, questa volta con un coro alcolico da pub più legato alle atmosfere londinesi, tra bicchieri sbattuti e grasse risate, mentre imbocca la strada tradizionale del progressive l’affascinante Selene, un inno alla dea lunare introdotto da xilofoni e dal vago sentore barrettiano, che va a sigillare delicatamente il primo lato del disco.
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Apre la seconda parte intitolata “Side of the Fun Gods” (che è quasi il manifesto programmatico dei Gong) Flute Salad, un pezzo ambient da cui escono scivolosi sintetizzatori, inserendosi perfettamente nella lubrica psichedelia di Oily Way, che nella mitologia Gong rappresenta lo spazio invisibile su cui i Flying Teapots viaggiano, incarnato perfettamente dalle trame sdrucciolevoli del flauto.
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Le seguenti due tracce sono il combo templare di Outer Temple e Inner Temple, esotiche ed esoteriche, che fluttuano nella mistica galassia con il vorticoso Blake ancora al posto di guida, in un viaggio sonoro sorprendentemente rilassante.
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Dopo il breve e folle intermezzo di Percolations, arriva poi il momento di Love is How You Make It, forse il pezzo più simile al pop dell’intero repertorio del gruppo, un inedito Rasoio di Occam di stampo gonghiano che viene affinato dalle marimba e dalle percussioni tribali, con il flauto di Malherbe che fornisce poi un delicato sostegno alla voce di Allen. I testi suggeriscono fortemente l’uso della droga che era – ovviamente! – in gran parte responsabile delle curiose composizioni di questa trilogia.
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Il penultimo brano è poi, senza dubbio, il punto culminante di Angel’s Egg ed assume finalmente la forma di Steve Hillage: I Never Glid Before è un ologramma acustico in cui il suo genio ha modo di emergere, spinto da tamburi maniacali coi quali riesce in qualche modo a creare l’illusione di una performance colorata di hard rock. Indubbiamente, questo brano costituisce il modello per gli album solisti di Hillage, in particolare Fish Rising, rilasciato due anni dopo. Chiude, infine, il secondo capitolo della saga Eat that Phonebook Coda, mostrando di nuovo le abilità del mago Didier Malherbe, intento a mangiare un elenco telefonico, in un collage di brani scartati che suona comunque unitario: un rinfrescante dessert che ha il sapore di una “frittata angelica” ipocalorica.
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Angel’s Egg incapsula tutti gli ingredienti elementi del repertorio Gong e proprio per questo è uno dei loro album più definiti. Il terzo capitolo You uscì nel 1974, sottotitolato “Gong is One and One is Gong“, ma era solo l’atto conclusivo di una serie che aveva ormai perso lucidità, mantenendo gli stessi ingredienti del suo predecessore ma omogeneizzandoli per una miglior deglutizione. In qualche strana maniera questo album riesce a fondere la beatitudine spirituale dei Tangerine Dream con la satira rauca di Frank Zappa, barcollando in quella linea sottile che separa il sacro ed il profano – ed è proprio lì, in quell’impercettibile ed agnostico territorio, che si trova la sua inimitabile magia.