
Gentle Giant | Octopus (1972)
Il quarto album dei Giganti Gentili, uno tra i migliori e più noti della loro discografia
“Octopus” è il quarto album degli undici in studio pubblicati dai Gentle Giant. Il vinile, uscito nel 1972, è senz’altro la loro opera di maggiore successo nel nostro Paese, dove il progressive aveva preso piede grazie anche a gruppi italiani come il Banco del Mutuo Soccorso, la PFM, gli Area del mai pianto abbastanza Demetrio Stratos, ed altri non minori e ricchissimi di idee. Album sofisticato e per orecchie “buone”, trae molti spunti e occasioni creative dai libri di Gargantua e Pantagruele di Francois Rabelais (The Advent of Panurge) o dallo scrittore Albert Camus. Il brano centrale e migliore dell’album “Knots” deriva direttamente il suo titolo da un libro dello psichiatra scozzese R. D. Laing.
Alla fine degli anni Sessanta, i fratelli Shulman sciolgono definitivamente la loro band (Howlin Wolf & The Roadrunners poi rinomitata Simon Duprée & the Big Sound) con cui avevano realizzato esperienze rhythm & blues e rock e cercano un nuovo modello espressivo, nuovi contenuti lirici, in sostanza un nuovo linguaggio con cui esprimere la loro vena creativa. A loro si uniscono Gary Green, Martin Smith e soprattutto il vulcanico Kerry Minnear, compositore di grande talento e strumentista di altissimo livello.
Ottimi professionisti, si capiscono in fretta, e Minnear, insieme con Ray Shulman, anch’egli molto dotato di talento compositivo, arrangia e ricrea articolate partiture classiche, contaminate di riferimenti colti ad armonie e ritmi del passato remoto (Rinascimento, Barocco etc..), a cui i compagni non fanno fatica ad abbandonarsi ciascuno offrendo la parte migliore del proprio spirito musicale. Nascono i loro cori e le loro ricche tessiture polistrumentali che ce li fanno ricordare ancora oggi a così tanti anni di distanza. E nasce “Octopus”, un disco progressivo fresco e brillante, con affascinanti colpi di scena.
Il Vinile conosce subito una particolarità: due sono le copertine che lo rivestono, una per la versione inglese realizzata da Roger Dean, e una per la versione americana, dell’artista Charles White; in italia vedremo quello della versione inglese, con un polipo gigante con otto tentacoli, uno per ogni brano dell’album. Otto brani di circa 4/5 minuti ciascuno: il batterista è nuovo, John Wethers, di formazione rock, insomma un tipo “muscolare”, lineare e potente, perfettamente in grado di dominare la materia musicale del gruppo, fornendo anche (e per ogni evenienza) una solida struttura comprensibile anche ad un pubblico rockettista.
Knots: è il brano centrale, come abbiamo detto, ed è anche quello che viene eseguito più spesso dal vivo: quattro voci che si rincorrono seguendo ciascuna la propria armonia e la propria partitura con stranezze musicali di ogni tipo, senza però fuorviarsi l’una con l’altra, e nessuno dei musicisti sbaglia, nel perfetto equilibrio contrappuntistico del brano. Non c’è dissoluzione o geometrismo ossessivo, come in alcune armonie di Bob Fripp, ma gioia intensa nel parlato o nel borbottio o nel semplice vocalizzo. Gli strumenti intervengono, puntualizzano, suggeriscono, ma mai oscurano le voci nitide anche nel lessico e nella dizione. Minnear e Derek svettano sugli altri per potenza e timbro.
Nel prologo di The Advent of Panurge la voce di Minnear (sempre lui) insieme con la sua tastiera creano, con una voce d’altri tempi, un’attesa che via via si accresce in un contrappunto di pianoforte dalle tonalità scure a presagire l’arrivo imminente dei giganti, che con le loro urla, i loro passi pesanti e la loro immensa ingordigia sconvolgeranno la percezione stessa della realtà. E’ senz’altro uno dei punti più alti della creatività e del genio musicale nella carriera dei Gentle Giant.
“Dog’s Life”: bellissima melodia (intonata da Phil), breve, di estrema semplicità strutturale e ritmica, eppure di grandissima classe con la voce di Phil che svetta sulle altre, con la sua notissima carica ironica.
“Think of Me With Kindness”, lento, struggente, quasi solo pianoforte e la voce di Minnear di pura materia cosmica in stile tradizionale, quasi pop, a ricordare da vicino i Genesis di Peter Gabriel.
Di contro “The Boys in the Band”, strumentale burrascoso e di grande virtuosismo del gruppo (su tutti i livelli, a cominciare dal prologo).
“Raconteur Troubadour”, i Gentle Giant si trasformano: la leggera percussione fa da contorno ad un’atmosfera madrigalesca, delicatamente rinascimentale, che vede in primo piano voce, tamburello e il violino di squisita fattura di Ray Shulman lineare e sobrio; una bellissima pagina molto vicina al mondo classico più che a quello rock.
“A cry for everyone”: brano rock per eccellenza, ma con ritmiche molto fantasiose e ottimi virtuosismi tra chitarra e tastiere.
A chiudere il disco “The river”: in apertura un riff micidiale che subito si allarga in un’area più sperimentale: dentro vi confluiscono molte contaminazioni e citazioni eseguite con uno stile asciutto e senza carinerie.
Insomma 35 minuti di buon rock; una band il cui ricordo è tutt’altro che sbiadito e che abbiamo amato imparandone i testi a memoria per poterli cantare alle nostre ragazze-rock; quando ancora non c’era la rete con tutte le parole del mondo.