
Felt | Felt (1971)
Sul proto-progressive americano (1)
Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, sono esistite anche al di là dell’Atlantico alcune band che esprimevano un pop-rock proto- e pre-progressivo che poteva considerarsi una forma primitiva/embrionale del rock progressivo “vero e proprio” o, in altre parole, una sua anticipazione. Il principale problema che si pone in ordine alla collocazione storica e alla definizione di un proto-progressive americano è, comprensibilmente, il carattere episodico del progressive americano “vero e proprio”, la sua inconsistenza se non come fenomeno riflesso circoscritto a influenze britanniche. Sta di fatto che qua e là emergono indizi piuttosto evidenti di una “via americana” al rock progressivo – anche più abbondanti se si estende la ricerca ai suoi possibili anticipatori –, sebbene si tratti, generalmente, di manifestazioni marginali e isolate. Per riportare alla luce quella che fu la scena (proto-)progressiva americana all’incirca tra 1969 e 1975, prenderemo in esame di volta in volta qualcuno degli sparsi tasselli in cui sembra essersene conservata la testimonianza; li metteremo a confronto gli uni con gli altri e con i rispettivi modelli. I misconosciuti Felt offrono un eccellente punto di partenza.
Non si sa molto di questa brillante band del profondo Sud, oltre al fatto che nacquero in Alabama e che incisero un solo, breve, album omonimo nel 1971, presso una piccola etichetta (la Nasco) specializzata in blues e gospel. Dal momento che non troverete molte recensioni in italiano su di loro, sarà utile fornire alcune informazioni essenziali, a cominciare dalla formazione: Myke Jackson (chitarra e voce), Mike Neel (batteria), Tommy Gilstrup (basso), Stan Lee (chitarra ritmica) e Allan Dalrymple (tastiere). Pare che avessero tutti meno di 20 anni all’epoca in cui incisero il disco (a detta di Gilstrup, lui e Neel ne avevano 18, Dalrymple 19, Lee e Jackson appena 17) e che abbiano cominciato a suonare assieme solo nel 1970. Nucleo creativo della giovane band erano, in ogni caso, Jackson e Neel. L’album non ebbe seguito anzitutto perché, un mese dopo la fine delle registrazioni, il leader della band, Jackson, finì in riformatorio e quando ne uscì si diede alla religione e alla musica sacra, per cui i Felt si erano già sciolti prima che il disco uscisse o subito dopo. A parte Dalrymple, perito ancor giovanissimo in un incidente, i vari membri della band hanno continuato a suonare, ma nessuno di loro ha avuto una carriera musicale rilevante. Lee è stato identificato col chitarrista dei Dickies, band punk-rock di fine anni ’70 (ma Gilstrup nega che si tratti di lui, attribuendogli un percorso jazz e folk più coerente con la sua formazione musicale). Nell, invece, potrebbe aver fatto parte dei Myron & The Vandellas, una band rock&roll e doo-wop.
Veniamo a “Felt”. È un album ben suonato e direi altrettanto ben prodotto. Notevoli, soprattutto, le parti di chitarra, per pulizia e incisività del fraseggio, specie se si considera la giovane età di Jackson. In ogni caso, quello dei Felt è un sound sorprendentemente compatto e vivace, a tratti inevitabilmente acerbo, in cui il rock psichedelico (anche inglese: i Beatles e azzarderei i Pink Floyd) si fonde al blues e al jazz con esiti nient’affatto scontati. Incuriosiscono ma non sorprendono (dato il back-ground largamente simile) certe assonanze con i primi Colosseum. Beninteso, l’unico pezzo più lungo, “Change”, denuncia tutti i limiti compositivi della giovane band, marca la sua distanza dai modelli più ambiziosi dello sperimentalismo psichedelico “maturo” e proto-progressivo. Mi preme soprattutto rimarcare che nello stesso anno in cui, la scena musicale inglese produceva “Tarkus”, “The Yes Album”, “Aqualung” e “Nursery Cryme”, quella americana restava legata a forme incompiute di transizione post-psichedelica persino laddove (come nel caso dei Felt) le capacità strumentali e la formazione musicale sarebbero virtualmente simili o identici.