
Dream Theater | Dream Theater (2013)
Il dodicesimo album in studio dei Dream Theater, un forte richiamo alla propria identità.
Nessuna immagine in copertina, nessun titolo dell’album, i Dream Theater si concentrano solo sulla musica e ribadiscono orgogliosamente la loro identità, senza compromessi e senza cercare di compiacere nessuno.
Puntuali come sempre i Dream Theater pubblicano, due anni dopo A Dramatic Turns of Events, il loro dodicesimo album, il secondo senza Portnoy. Pochi gruppi al mondo, forse nessuno, hanno avuto la caratteristica molto originale di essere amati o odiati in modo assoluto. Difficile avere vie di mezzo con i Dream Theater, o vengono considerati geni assoluti o insopportabili tecnici senza cuore. Do atto a Petrucci di non essere assolutamente interessato alle critiche che gli vengono rivolte, ma di continuare a fare la musica che vuole, che preferisce senza compromessi. Il difficile è proprio cercare di ascoltare la loro musica senza preconcetti.
Qualunque cosa si pensi, i Dream Theater sono sempre stati un gruppo “superiore”, questo credo sia innegabile. Negli anni novanta hanno davvero mostrato notevoli capacità di innovamento, negli anni duemila hanno invece pubblicato puntualmente, con cadenza biennale, nuovi album troppo spesso uguali a se stessi. Da almeno dieci anni la loro vita è questa, anni dispari nuovo album, anni pari tour mondiale. I Dream Theater sono diventati, in pratica, un clichè, una sorta di brand del progressive metal da esportare in tutto il mondo. Ciò non toglie nulla alla qualità del prodotto, ma i prodotti si ripetono uguali a se stessi da tanti anni, come se a farli fossero delle macchine più che degli uomini. Mi viene da fare un paragone col libro di Orwell, 1984, dove i libri d’amore per proletari erano tutti talmente simili l’uno all’altro e talmente privi di valore artistico da poter essere scritti addirittura da una macchina adibita allo scopo.
Dire uguali è in effetti inesatto, da anni assistiamo ad un’alternanza tra album molto metal (il nuovo Dream Theater, Train Of Thought, Systematic Chaos), ed altri con maggiori sonorità progressive (Octavarium, A Dramatic Turns of Events). Questa è la loro identità, questa è la musica che amano e che vogliono proporre, prendere o lasciare, da questo punto di vista la coerenza è assoluta. Bisogna solo capire se questa è coerenza o una totale incapacità di innovarsi.
Detto questo, il nuovo album omonimo ha la caratteristica di essere davvero molto metal, di progressive c’è poco o nulla, quasi tutto nella suite finale. A differenza degli ultimi album manca una vera e propria ballad e i brani sono mediamente più brevi. Si torna dopo Stream Of Conciousness (2003) ad ascoltare un brano interamente strumentale (Enigma Machine). Tendenzialmente non c’è nulla di nuovo, il clichè continua con prodotti tecnicamente perfetti, ben confezionati, ma che non cambiano nulla, nè hanno intenzione di farlo. I Dream Theater si confermato eccellenti nelle lunghe parti strumentali, complesse e contorte. Tempi dispari, ritmi velocissimi, inseguimenti vertiginosi, Rudess e Petrucci suonano ormai all’unisono, hanno creato una macchina ben oleata in ogni sua parte che va a meraviglia, ma sempre nella stessa direzione.
Il primo brano, False Awakening Suite, non è altro che una perfetta intro epica per il tour 2014, una “falsa” suite che ci introduce al nuovo album.
Si arriva al primo singolo, The Enemy Inside, è il brano più metal dell’album con un riff di chitarra complesso ed ostico, si riprendono le sonorità tanto criticate di The Dark Eternal Night. Le critiche però a Petrucci non interessano e non gli impediscono di continuare sulla sua strada. The Enemy Inside è esattamente quello che doveva essere, dal punto di vista di Petrucci è perfetto.
The Looking Glass è un rock più leggero che riprende il riff di About to Crash dell’album Six Degrees of Inner Turbulence. Si arriva al brano strumentale, Enigma Machine, anche qui tutto è perfetto ma non si aggiunge nulla ai vecchi brani strumentali (Erotomania, The Dance of Eternity, Ytse Jam e Stream Of Conciousness) che gli sono superiori. Certamente Petrucci è – come sempre – impressionante nella sua tecnica.
Il resto continua sulla falsa riga degli album degli ultimi anni; il brano migliore è la suite finale, Illumination Theory, divisa in cinque parti, dove i Dream Theater fanno quello che sanno fare meglio, complessità, cambi di tempo, lunghe parti strumentali. Anche Labrie, spesso in secondo piano, ha in certi tratti – ad esempio dal minuto undici – una voce davvero cristallina e sorprendente. Non manca il riff duro e coinvolgente, la parte di piano classico nè il finale epico. Interessante dal minuto dodici il piano quasi jazz di Rudess accompagnato dalla chitarra rabbiosa di Petrucci. Il prodotto è ancora perfetto e pronto per essere esportato in ogni parte del mondo. Ma appunto, è solo un prodotto.