
David Gilmour | Rattle That Lock (2015)
L'atteso ritorno di Gilmour non aggiunge nulla di memorabile alla sua straordinaria carriera
Atteso con trepidazione, e con altrettanto timore, giunge nei negozi il nuovo album di David Gilmour: “Rattle that lock”, ossia – significativamente – “Forza quella serratura” e sii libero; trepidazione un po’ disattesa, in realtà, e timori abbastanza fondati, ahinoi. Sì perché, diciamolo, gli ultimi due lavori di Gilmour da solista non è che avessero convinto più di tanto, specie l’ultimo “On a Island”. Eppure – duole dirlo – perfino il lavoro del 2006, dinamicamente altalenante nel complesso, risulta migliore di questo nuovo album in studio. Ma che cosa è successo al nostro David? Non solo la creatività compositiva latita ma perfino la costruzione del sound, a dispetto di altri ‘dinosauri’ della musica internazionale, suoi coetanei, come Ian Anderson, Robert Fripp o Andy Latimer, che tutt’oggi riescono imperterriti a tirar fuori grinta e passione incredibili.
Rimane certamente impeccabile lo stile e la professionalità degli arrangiamenti ma, inutile girarci attorno, l’album – musicalmente – non coinvolge, non sorprende, non sperimenta, non brilla, non dice granché. Ad ascolto ultimato si ha la sensazione di aver udito un emulo di Gilmour, più che l’originale. A conti fatti, il suo miglior album permane, tuttora, l’omonimo “David Gilmour” dell’ormai lontano 1978, riuscito insieme di brani con un David in piena forma compositiva ed esecutiva che paradossalmente resta a un livello qualitativo non più raggiunto, neppure a fronte di migliori e più potenti strumentazioni e di più importanti collaborazioni.
“Rattle that lock” – la cui canzone omonima presenta un testo, scritto da Polly Samson, ispirato dal secondo volume del Paradiso perduto di John Milton – procede quasi per inerzia, sottotono, del tutto dimentico dei grandi scorci musicali tratteggiati dal leggendario chitarrista dei Pink Floyd. Una sufficienza risicata è sì raggiunta (anche per benevolenza verso il bellissimo video di “Rattle that lock”, nonché verso un evidente lavoro di produzione, di assemblamento musicale e di art working) ma si fatica a credere che un tale artista abbia davvero giocato tutte le sue carte migliori; e se così fosse, sarebbe ora – se ancora si voglia crederlo – che Gilmour alzi lo sguardo e le orecchie, lasciandosi ispirare da altri artisti che possano magari dargli input musicalmente prolifici.
Da segnalare comunque la presenza, sempre gradita, di ottimi e noti musicisti come Phil Manzanera (anche in veste di coproduttore), David Crosby, Graham Nash, Robert Wyatt, Andy Newmark, Danny Cummings (percussionista storico dei Dire Straits) nonché gli immancabili Guy Pratt al basso e Jon Carin alle tastiere. La paroliera e consorte Polly Samson presta anche la sua voce nella traccia 9 (“Today”).
Nonostante il basso profilo generale ricavato dall’ascolto dell’intero album, un paio di ottimi brani da segnalare ce ne sono (non di più), come “In any tongue” (suonato con il figlio Gabriel al pianoforte) ed “And then…”, capaci di raggiungere una strutturazione sonora finalmente efficace e far vibrare per un attimo le nostre anime più veracemente e nostalgicamente gilmouriane. Non male anche il clima da cabaret fumoso da anni Venti ricreato in “The Girl In The Yellow Dress”. Troppo poco, però. Per il resto, infatti, meglio ascoltare (anzi, riascoltare) vecchie glorie del passato, ancora in grado di stupire e affascinare, che non recenti registrazioni come queste tanto osannate dal marketing quanto prive di pathos e originalità.
Che dire? Provaci ancora, David.