
David Bowie | Blackstar (2016)
“Sarò l'unica star a morire sul palco” disse il presunto alieno venuto da Marte e invece, della sua morte fece spettacolo, come nel più ridicolo e banale dei riti. Chissà che direbbero Les Harvey e Mark Sandman...
Un senso di dichiarata indefinitezza, contorni che fan fatica a trovare un dimensione, cosa che non dispiace affatto e a tratti conquista. Questo è l’incipit del lungo brano che annuncerà come primo singolo, l’ultimo (salvo ovvie pubblicazioni postume, senza dubbio… ehm “geniali”) disco di David Bowie, Blackstar, più un miracolo di produzione che di scrittura, in realtà. Sensazione confermata col giungere di un lungo bridge/variazione che direttamente a Lodger fa riferimento e che abbassa appena un po’ le quotazioni del (bel) pezzo, prima del ritorno al tema principale, sostenuto da una ritmica, più diretta, meno vicina ai percorsi di un dubstep d’ultima generazione. Una sorta di ponte tra passato e futuro, tralasciando il presente, tra soffi di flauti e rantoli di sax, voci doppiate su due ottave, echi a la Radiohead e gran potenza visiva. Eccellente la produzione di ‘Tis a Pity She Was a Whore, non fosse che il brano, praticamente non esiste. Va meglio con il secondo singolo, Lazarus, che trova una discreta melodia, sostenuta da arrangiamento che di contemporaneo non ha nulla e che riecheggia la migliore produzione degli anni ’80 di Bowie, con in evidenza un solo di sax di livello (a Donny McCaslin la palma come miglior musicista del disco, a Ben Monder, la domanda del perché dell’imitazione di un Fripp, vivo e vegeto, che non credo abbia bisogno di ulteriori proseliti oltre ai già presenti Trey Gunn e Adrian Belew), un riff iniziale e conclusivo che ai Cure paga debito in maniera chiara e netta. In crescita con Sue (Or In a Season of Crime), ritmiche dispari, guarda caso, “crimsoniane” (favolosi i puzzle escheriani di basso e batteria), cantato stentoreo che si libera in aperture che solo un timbro miracolato come quello di Bowie può, o meglio, ha potuto.
Si, perché, la voce, in questo disco, torna a livelli dimenticati da tempo, ritrovando leggerezza, quanto profondità. Un brano da pura antologia, nonché il migliore del disco e uno dei gioielli della produzione tutta dell’autore, l’autentica sensazione/proiezione che ci potessero essere frontiere da attraversare e che un destino profondamente malvagio l’abbia spazzato via, o chissà (e meglio), solo un perfetto e assestato, colpo di coda. Appena un po’ più sotto, Girl Loves Me, appesantita da qualche “necessario appiglio pop”. Non di meno ma null’affatto peggio, anzi, Dollar Days, che si appoggia ad una melodia fuoriclasse e assieme a Sue suona come la migliore intuizione del disco. Ancora una volta, assolo di sax che strappa via l’anima e una voce che è Voce, con tante maiuscole. Un interprete senza possibilità di confronto, mille stelle che tornano a luccicare nel cielo, attorno a un pop lieve quanto profondo, strutturato e leggibilissimo, denso di intuizioni soniche, strutturali, melodiche e armoniche. Unica pecca del pezzo, un breve finale ritmico veramente inutile e posticcio. Chiusura rassicurante e non degna di particolare nota con I Can’t Give Everything Away. Un disco di medio livello, dunque, appena superiore a The Next Day e la cosa migliore dai tempi di Outside, che comunque, qualche gradino sopra fu. Un buon modo davvero per accomiatarsi, dopo dischi veramente brutti come Heathen e Reality, da parte di un artista vero, che è stato al contempo personaggio di spettacolo, musicista d’avanguardia, circondato e vezzeggiato dai più grandi strumentisti di ogni decade del rock.
Personaggio sempre curioso rispetto all’evolversi dei tempi e in qualche caso capace di anticiparli (Sue, a suo modo, in questo disco, è ancora in grado di farlo). Icona profondamente narcisista, legata alla necessità del consenso di massa, anche sulla base di dichiarate ideologie destrorse/sociologiche, che non ha saputo fare a meno di legare posa a moto di spirito autentico, Bowie, è stato un autentico “demone” della cultura contemporanea, capace d’influenzare il meglio e il peggio di quanto prodotto dalla controcultura (termine ormai ampiamente e tristemente, desueto) e dalla cultura populista (non è un caso che “Heroes” sia divenuto una sorta di inno da stadio, ad uso e consumo televisivo) Madonna e Lady Gaga, quanto Brian Eno, giusto per rendere l’idea del suo paradosso. La sua è stata manifestazione mai celata, di quanto l’Ego possa essere determinante per la creazione e quanto distruttivo (Morgan ne sa qualcosa). La quasi totalità della sua produzione non avrebbe avuto alcun senso estetico se non appoggiata e “formata” con e dai massimi talenti strumentisti del rock, che lo hanno sostenuto e che con lui, han diviso soldi e glorie (dal mellotron e il pianoforte di Rick Wakeman ad Eno, Fripp, Steve Ray Vaughan, Mick Ronson, Tony Visconti, Carlos Alomar, Iggy Pop, Simon House, Pete Townshend, Omar Hakim, Nile Rodgers, Peter Frampton, Lenny Kravitz, Lou Reed, Reeves Gabrels, David Torn, Dave Grohl, Tony Levin, Lisa Germano, Queen, Pat Metheny, Annie Lennox… ma davvero è come se tutto il rock avesse diviso il suo stesso palco). L’altalenanza di affermazioni completamente opposte in merito a preferenze sessuali/affettive, di giorno in giorno, lo rendono oggi, personaggio di una tenerezza a tratti patetica. Il tempo fa il suo corso, del resto, appresso alla morale e lui non s’è mai esposto al punto da ledere la sua carriera, altro che “glam”, “Velvet Goldmine” e fratello elettivo di Marc Bolan, solo uno che aveva capito dove e quanto spingere, in tempi di esaltazione del travestitismo legato alla body art degli anni ’60. Bowie è stato autore di testi davvero mediocri, ma di alcune delle melodie più geniali di ogni tempo (Quicksand, giusto per citarne una). E’ stato cantante lezioso (sinceramente fastidioso per nasalità nei primi anni della carriera, con tanto di “bonus stecca deliberata, perché sono un genio” basti ascoltare “Life on Mars?”), quanto interprete di un’eleganza e profondità impagabile (dalla seconda metà degli anni ’70 alla fine degli ’80), accettato il registro di baritono leggero. Attore cinematografico povero (più caratterista che altro), ma anche credibile interprete brechtiano in teatro (Baal) e di teatro-musica (nessuno come lui può vantare tanta credibilità in un brano come My Death, poi trasfigurato in Rock’n Roll Suicide). Produttore capace di addomesticare solo cloni in fase critica (Lou Reed, che assai meglio avrebbe fatto, lontano da lustrini, con Berlin e Rock’n Roll Animal, Iggy Pop), ha saputo reinventare sempre sé stesso, con lo stesso piglio di uno stilista più che di un musicista, ma non mancando mai di emozionare. Quanto poi queste emozioni siano state a buon mercato e quanto vere, è il mistero più grande che ci abbia donato. Nessun alieno venuto da Marte, su, solo un astutissimo venditore di sé stesso, quando era d’obbligo essere significanti per essere credibili (Madonna sarebbe arrivata dopo e non ne è stata immune, ma quante/i avrebbero voluto essere al suo pari?) eppure co-autore di irraggiungibili sinfonie avant come Warszawa e Some Are (senza contare deliri nichilisti come Sense of Doubt e soprattutto Neuköln, dove, la penna di Eno si fa forte… non lo fosse stata in Warszawa, del resto).
Un gran paraculo, dunque, mi si consenta il termine, fino alla fine e alla “curiosa” gestione dell’uscita del disco in questione (che l’artista fosse malato di cancro, lo si sapeva da anni), dei funerali, di un corpo, che infondo, ha sempre avuto un “peso” economico (quotato in borsa al pari del suo operato), pari all’indiscussa bellezza e carisma, equiparabile ad un talento senza pari, che nel bene E nel male, lascerà un vuoto senza pari.
P.S.: Ero ad Ostia, in treno, pochi giorni fa ed un curioso signore, sventolando un free press, si rivolgeva a ragazzini, urlando “era un cancro alla lingua in realtà, perché era un pederasta”, i ragazzi ridevano, ma non credo perché sapessero chi Bowie fosse mai stato e non credo mai l’ascolteranno…