
Coucou Selavy | Nequaquam Voodoo Wake (2016)
Teatro, musica e filosofia nella crepuscolare opera-rock di Coucou Sèlavy

Coucou Selavy
Se si dovesse descrivere in poche parole il suono di questo disco, direi che Coucou Sélavy probabilmente suona come se Claudio Monteverdi vivesse oggi alla corte dei Gonzaga sotto spoglie dark, spingendo al limite non solo la propria opera e la propria voce, ma anche alcune riflessioni insite nell’animo di chiunque, quei pensieri che non vengono mai scomodati per paura di mettersi in discussione e che offrono un finale contraddittorio e polivalente quanto quello dell’ “Orfeo” del sommo compositore barocco. Per essere stato assemblato da una singola persona bisogna innanzitutto premettere come Nequaquam Voodoo Wake sia un disco molto curato nei dettagli, per nulla artigianale: nell’abbondanza di idee e di messaggi (spesso anche criptici), citazioni ed idee originalissime, emergono infatti un tripudio di componenti elettroniche ma anche, paradossalmente, un’atmosfera impregnata di classicismo, a partire dalla primissima Incipit, decadente ouverture sui generis, preludio a quella che sarà il piccolo-grande melodramma di Coucou Sélavy, venticinque minuti di “fame e coliche“, per dirla alla Niezsche, tra grandi momenti di voracità baritonale ed altre sezioni di evacuazioni emotive.
Fulgido esempio di questa dicotomia è proprio Precipices, costruita mattone dopo mattone, sempre traballante ed in bilico non solo tra classicità e modernità, ma anche sulla sottile linea manichea che separa il bene ed il male: il primo rappresentato dalla sacralità dell’organo ecclesiastico, il secondo dalla voce a tratti seriamente inquietante di Coucou Sèlavy, che più che cantare sembra quasi esorcizzare se stesso ed i suoi mille demoni, rappresentati dalle altrettante voci che vanno spesso a sommergerlo, senza mai trovare tuttavia un modo per zittirlo.
L’entropico squallore è invece una composizione molto più teatrale, e per questo più corporea: risulta molto difficile incidere su disco certe movenze proprie del palcoscenico, il momento in cui il corpo e la musica lavorano assieme per rivelare il messaggio dell’anima, un messaggio metafisico. Qui c’è solo la voce, eppure si riesce lo stesso quasi a percepire questo movimento fisico e liberatorio, che ci spinge infine verso To The Centre (of the Earth, of the Hearth), forse la canzone con il titolo più appropriato dell’intero catalogo (che pur vanta dei nomi molto originali), un viaggio verso il “caldo” centro della terra dai toni escatologici. Trovo interessante che sul finale Coucou Sélavy decanti sardonicamente l’io come “un’illusione prospettica“, riportando alla mente proprio il Nietzsche più nichilista, la rinascita dell’uomo come Oltre-Uomo, la caduta degli dei e di qualsiasi altro suo surrogato. Poichè gli dei, al giorno d’oggi, si nascondono in ogni dove, sotto la forma di oggetti preziosi ma anche di false speranze.
La risposta di Coucou Selavy a questa disillusione è racchiusa nella negazione latina di Nequaquam, spontanea evoluzione del nichilismo della traccia precedente: minimale, catartica, dalla trama ciclica come il karma, la sentenza di Coucou Selavy si lega in un certo senso al Teatro della Crudeltà di Artaud, una presa di coscienza che non è per forza violenta o scioccante, ma che è e rimane soprattutto liberatoria. In seguito, nella gotica celebrazione di Orfeo, Banfi Lino-Lillà c’è poi molto dei Bauhaus più crepuscolari, e proprio questa è una delle tracce che rendono maggiormente la carica evocativa di Coucou Selavy, tra grida allarmanti, declamazioni apocalittiche e fantasmi contati come pecore per addormentarsi, una sfaccettata ed oscura sinfonia che ci lascia con una beffarda domanda che s’innalza nell’imponente vento elettrico: “che differenza fa?“.
Il madrigale post-moderno di All This World (dove la reiterazione del “nothing”, del “nulla”, viene riempito di voci e di magia) e la liturgia esoterica di Nada Rosso Sangre alla Sera dimostrano, ancora una volta, come lo sguardo di Coucou Sélavy sia molto acuto, forse perfino un po’ troppo perspicace per essere compreso in un panorama musicale in cui la moda esige una rabbia urlata a pieni polmoni a suon di strillanti clichè: lui, al contrario, il suo malessere quasi lo prende per mano, lo decanta e poi lo interroga, in un intimo esorcismo che viene sublimato in musica dalle letali note dell’organo. Successivamente, nel breve sogghigno neo-progressivo di What Hides (or Skyes) e, infine, nella ghost-track di 24 Mila Baci viene portato ad estatico compimento questa sorta di processo di “decostruzione” à la Derrida e forse non è un caso che ad essere vittima di questo processo demolitore sia proprio LA canzone per eccellenza della tradizione melodica italiana. Sotto questo punto di vista, si tratta dell’epilogo coerente di un viaggio mistico-apocalittico all’insegna delle contraddizioni (intrinseche, ormai, nella nostra cultura moderna), che vengono trasportate con più o meno veemenza verso i mari agitati del paradosso, attraverso una astuta forma di destabilizzazione (organi clericali e voci mefistofeliche, effetti elettronici e strumenti classici, arie operistiche e declamazioni post-moderne).
Senza dubbio, abbiamo davanti uno splendido episodio di arte globale: filosofia, teatro, poesia, musica e opera collidono in un disco che probabilmente trascende l’essenza stessa dell’arte, eludendo anche il fattore temporale. Ma due anime albergano nel petto di questo album (tanto per parafrasare le dicotomie letterarie del Faust) e proprio nei suoi molti pregi ristagna anche il suo unico difetto: nel suo essere largamente evocativo ed enigmatico, sacro quanto intrinsecamente malvagio, probabilmente Nequaquam Voodoo Wake non è un disco per tutti, per il semplice fatto che esso necessita di una discreta attenzione ma, soprattutto, di una mentalità critica non molto diffusa nell’Uomo Comune, oltre che di una certa predisposizione a farsi “destabilizzare”, a sentirsi a disagio, mettersi in discussione. Assumere scomode posizioni che, in fondo, rappresentano proprio l’essenza stessa della crescita e del movimento. D’altronde: Coucou Selavy come “c’ est la vie“… Questa è la vita!