
Comus | First Utterance (1971)
Dobbiamo subito dire che per ascoltare First Uttenance ci vuole pelo sullo stomaco certo non per la sapiente e personalissima miscela di acid-folk, psichedelia e progressive che la band riesce a comporre quanto per quegli elementi di paganesimo e macabri di cui sono infarciti i testi e che vengono interpretati con voce grottesca e fortemente impressionista da Wootton che non disdegna l’aggiunta di sapienti alchimie elettroniche per ottenere effetti paurosi e sconvolgenti.
Non un grano di polvere tra i solchi di First Utterance, che il tempo ci restituisce intatto nella sua modernità ed orginalità, ingiustamente messo da parte e solo molto più tardi rivalutato soprattutto dal pubblico italiano ed in Giappone. Registrato tra novembre e dicembre del 1970 e pubblicato nel febbraio dell’anno successivo, First Utterance è il disco di esordio dei Comus, band progressive inglese composta da Roger Wootton, chitarra folk, canto; Glenn Goring, chitarra a 6 e a 12 corde, chitarra elettrica, slide, tamburello, canto; Andy Hellaby, basso elettrico, basso fretless, canto; Colin Pearson, violino, viola; Rob Young, flauto, oboe, tamburello; Bobbie Watson, canto, percussioni. Il gruppo nasce nel 1967 dall’incontro tra Roger Wootton e Glenn Goring, due chitarristi che condividono le stesse passioni e che inizieranno a suonare con una certa regolarità esibendosi all’Arts Lab di Beckenham, locale molto noto e frequentato da David Bowie che li terrà d’occhio sin dalle loro prime esibizioni. Via via si uniranno a loro gli altri componenti della prima line-up, ultimo il flautista Michael Bammi Rose, che risponderà ad un annuncio su Melody Maker fatto dal gruppo, che nel frattempo, su suggerimento di Chris Youle, ha preso il nome di Comus. Sarà proprio David Bowie a dar loro la spinta definitiva al successo offrendogli la possibilità di aprire il suo concerto alle Purcell Rooms: firmano il loro primo contratto con l’etichetta Pye/Dawn nel giugno del 1970 e incideranno First Utterance rilasciato poi, come detto, agli inizi dell’anno successivo.
Il disco è un concept che si ispira in massima parte al poema pastorale “The Masque” di John Milton il cui protagonista è un demone lascivo e maligno, ma nelle liriche possiamo trovare anche evidenti riferimenti alla divinità greca Komus, figlio di Bacco e Cerere; nella copertina campeggia la figura del demone disegnata a penna a sfera dallo stesso Roger Wootton, mentre l’interno è dipinto da Glenn Goring. Dobbiamo subito dire che per ascoltare First Uttenance ci vuole pelo sullo stomaco certo non per la sapiente e personalissima miscela di acid-folk, psichedelia e progressive che la band riesce a comporre quanto per quegli elementi di paganesimo e macabri di cui sono infarciti i testi e che vengono interpretati con voce grottesca e fortemente impressionista da Wootton che non disdegna l’aggiunta di sapienti alchimie elettroniche per ottenere effetti paurosi e sconvolgenti. L’ascolto si dipana in una foresta maligna dove efferati delitti si compiono con abominevoli abusi, l’innocenza viene sopraffatta dallo stupro, lo shock insulinico utilizzato come terapia del disordine mentale. Tutto questo accade sotto i nostri occhi in contrasto stridente con le armonie femminili della voce di Bobbie Watson, con il fascino di una chitarra acustica lirica e poetica, e con le impressioni pastorali espresse dal violino e dal flauto.
Così come nella cosmologia dei Gong anche in quella dei Comus l’uomo è in balìa di potenze più grandi di lui e tuttavia nella band di Wootton tutto diventa incubo e paura del sovranaturale, apparizioni demoniache ed irrazionalità primeva, sino all’annichilimento descritto nell’ultimo brano del disco The Prisoner, che tratta della cura forzata del disordine mentale. A fornire il necessario equilibrio ai versi impazziti di Wootton è la voce sorprendentemente bella di Bobby Watson, seducente ed armoniosa, parte fondamentale del fascino dei Comus, di quel contrasto maschile/femminile che si crea nello scontro con la voce luciferina di Wootton tanto che viene da chiedersi come può una melodia essere così strana e così bella ad un tempo… Il successo, tuttavia, fu negato alla band che si sciolse dopo defezioni e rattoppi mettendo fine ad un prodigioso progetto straordinariamente innovativo e poliedrico, a quella miscela di mistica pagana e acid-folk un art rock si potrebbe dire “da manuale”, che non avrà altri interpreti nella musica di quell’epoca; ma l’impatto con la sensibilità popolare fu troppo forte: tenteranno ancora una volta nel 1974 con un altro disco To keep from crying molto più tradizionale (ed incolore) e non andrà meglio fino all’abbandono definitivo della scena musicale. Una recente reunion lì vedrà di nuovo insieme pubblicare il loro terzo disco Out of the Coma nel 2012 ma niente di neanche lontanamente simile ai fasti di quel loro debutto.
Il disco inizia con una traccia relativamente corta Diana che racchiude in sè, tuttavia, l’essenza dell’intero lavoro: al centro vi è un duetto maschile/femminile di dolcezza falsa ed artificiosa che nasconde invece il tentativo di violenza da parte di un dio silvestre nei confronti della dea giovane, il violino incalza in cerchi concentrici aizzato da un basso nervoso ed ipnotico; i tamburelli scatenano un ritmo inquietante per un brano diventato un’icona dei fans della band. Si prosegue con The Herald, pezzo tranquillo affidato alla voce seducente di Bobbie Watson e a violino e flauto per un atmosfera deliziosa e sognante con il dominio delle chitarre, uno psico-folk delicato e soffuso. Infrange tutto l’arrivo di Drip Drip, una traccia di progressive-folk di grande originalità, anch’essa ricca di armonie chitarristiche tra le migliori della band ma con un andamento mutevole a volte con movenze di danza tribale: nella lirica l’assassino, una volta uccisa la propria amata, descrive il suo disgustoso percorso nella foresta dove trascita il cadavere verso la sua tomba; armonie intense e magnifiche su versi perversi, non è possibile trovare esempi migliori nella musica di oggi.
La traccia seguente insiste sulla stessa linea: Song to Comus è una ballata in stile Jethro Tull con dominanza di flauto e chitarra riprende la narrazione iniziata con Diana e ne prosegue lo sviluppo alternando continuamente gli umori tra attimi di quiete e momenti aggressivi. Ci avviciniamo alla conclusione con i prossimi The Bite e Bitten, che si sviluppano senza soluzione di continuità l’uno nell’altro, dove nel primo si narra con lucidità cristallina i sogni e i pensieri allucinati di un prigioniero cristiano destinato alla forca il mattino seguente, nel secondo, brano strumentale, i Comus si avvicinano alle sperimentazioni più comuni di quel periodo con viola, basso e chitarra che cercano di descrivere gli ultimi istanti prima della morte del condannato. Chiude il disco The Prisoner che contiene un frammento di vita reale nella descrizione dell’esperienza di un malato di mente torturato dai medici nel manicomio in cui è rinchiuso: inizia leggiadro per proseguire sempre più malato e doloroso quando il “trattamento” diventa troppo invasivo ed inumano; gli strumenti si innalzano palpitanti e la voce lascia trapelare l’inferno dell’anima straziata fino alla conclusione del coro che grida schizoide “insane, insane, insane…”.
First Utterance rimane opera unica ed originale per lo stile che esprime e per la lirica che lo accompagna: i Comus sono riusciti in quest’unico atto ad elevarsi alti sulle decine di bands underground proprio per quella combinazione geniale di sperimentazione lirica e compositiva e di personalità che ha portato alla creazione di questo gioiello delle tenebre, del lato buio e caliginoso dell’acid-folk d’Oltremanica.