
Captain Beefheart and His Magic Band | Trout Mask Replica (1969)
La sovversione delle regole della musica armonica, la nascita di un nuovo modo di concepire l’arte.
“Trout Mask Replica ha fracassato il mio cranio, scombinato le mie sinapsi, fatto saltare i miei nervi, mi ha fatto ridere, saltare e sbronzare con gioia. Era un universo completamente nuovo, un paesaggio mai realizzato e mai immaginato prima”.
– Lester Bangs, New Musical Express, 1 aprile 1978
L’ascolto di Trout Mask Replica non è semplice. E’ un’esperienza traumatica per tutti coloro i quali decidono di avvicinarsi al lavoro di Don Van Vliet (in arte Captain Beefhearth che chiamerò in avanti Beefhearth) e la sua Magic Band. E’ un’opera tentacolare e surrealista, apparentemente senza senso: i testi appaiono illogici, gli accordi contrastano tra loro, i tempi sembrano casuali. Beefhearth ringhia, recita poesie su fraseggi di chitarra avvolti nel caos più totale. Pare che tutti i musicisti giochino, suonando ciascuno una melodia diversa dall’altra.
E’ probabile, tuttavia, che le cose comincino a farsi più chiare ascoltandolo diverse volte. Innanzitutto, ogni nota dell’album è stata ben pianificata in anticipo e costruita secondo un criterio ben determinato. Ogni singola nota, cioè, è parte di quel gioco che definirei “all’astrazione”, nel quale confluiscono tutti gli elementi di questo lavoro “bizzarro” che ha cambiato per sempre il modo di concepire la musica.
Ascoltandolo ancora, inizia a comprendersi quanto siano assurdi i tanti teoremi sulla semplicità e sulla complessità dell’arte. Non c’è arte semplice ed arte difficile: tutto dipende dalle sensazioni di chi dell’arte beneficia. Trout Mask Replica prospetta una musica da intendere con un modello mentale differente, punto. Edgar Varese, uno dei più grandi musicisti visionari del ‘900, disse: “Io non compongo musica sperimentale. La mia sperimentazione nasce prima della musica dopodiché è l’ascoltatore che deve sperimentare”. In particolare, credo che questo sia l’approccio giusto per apprezzare Trout Mask Replica.
L’opera vide la luce nel 1968, nei pressi di Los Angeles. Beefhearth affittò una casa che trasformò in studio di registrazione. Le finestre della casa erano oscurate, in modo tale da non permettere ai musicisti di capire se fosse giorno oppure notte. Il cibo scarseggiava a causa delle ridottissime risorse economiche dei musicisti che, un giorno, tentarono perfino di rubare in un supermercato li vicino. Questi furono imprigionati e poi rilasciati grazie ad una cauzione data da Frank Zappa che si offrì anche di pubblicare il disco con la sua label. Il parto del disco fu interminabile e faticoso, con Beefhearth occupato ad inculcare nella testa dei musicisti il suo progetto stravagante. La musica veniva “costruita” senza spartiti, solo attraverso una traccia di poche note di pianoforte. Più che compositore, Beefhearth potrebbe essere definito uno scultore, come ebbe a dire il chitarrista Harkleroad: “la sua idea era quella di usare suoni e corpi come attrezzi per la sua creazione”. La Magic Band era il gruppo che Beefhearth fondò nel 1964. Della formazione iniziale erano rimasti solo il chitarrista Jeff Cotton ed il battersita John French. Bill Harkeleroad (chitarra e flauto), Rockette Morton (basso) e Mascara Snake (cugino squilibrato di Beefhearth, clarinettista e narratore improvvisato) furono “reclutati” dopo, per la registrazione di Trout Mask Replica. Il disco fu pubblicato nel 1969. La copertina raffigura Don Van Vliet con la faccia di una trota con un cappello a cilindro in testa, mentre i pezzi “per quanto profondamente diversi l’uno dall’altro, sono altrettante versioni della stessa scena di devastazione”, come li ha definiti Piero Scaruffi.
Eccoci giunti al dunque.
Il primo pezzo è Frowland che ci chiede subito di mettere in pratica il messaggio di Edgar Varese: ascolta ed inizia a sperimentare. Qui ogni strumento va per conto proprio, apparentemente senza razionalità. L’impatto è di sicuro devastante, l’ascoltatore rimane attonito.
C’è un altro aspetto dell’arte di Beefhearth che vale la pena menzionare e che costituisce una chiave di lettura definitiva: il dadaismo. Ci è possibile fare un’analogia con il movimento culturale nato a Zurigo negli anni ‘20. Beefhearth, anche se rifiuta la razionalità, la conformità musicale, non respinge nessun comportamento irriverente in musica. Per questo tutti i mezzi sono efficaci per arrivare allo scopo: annullare la musica per ripercorrere l’arte con una nuova musica.
Si continua con The Dust Blows Forward ‘n The Dust Blows Back, un blues vocale, senza accompagnamenti. E’ una sorta di filastrocca che narra di alcuni ricordi di gioventù di Don Van Vliet quando si recava a pescare. La riflessione è dedicata alla natura, dove le cose muoiono e rinascono in un ciclo interminabile.
La natura umana dedita all’odio e alla violenza sembra inquietare Beefheart che, in Dachau Blues, si occupa di temi come l’olocausto, la Seconda Guerra Mondiale e Adolf Hitler. E’ un brano molto profondo, Beefhearth soffia nel clarinetto come un disperato, quasi a voler fermare la guerra e gli orrori che comporta. La musica è alquanto tetra, a voler descrivere tali orrori. Alla fine della traccia la voce di Beefheart sovrasta quasi completamente gli altri musicisti impedendo di godere appieno del loro virtuosismo.
Continuando con i blues possiamo annoverare Pena, capolavoro vocale di Beefhearth e China Pig, per Scaruffi uno dei più grandi blues di tutti i tempi.
I brani che prediligono l’improvvisazione strumentale, quelli in cui è presente l’influenza free-jazz, sono Hair Pie: bake 1 e bake 2, Neon Meate Dream Of A Octafish, When Big Joan Sets Up e la demenziale Veterans Day Poppy.
Per registrare Hair Pie: bake 1 di Beefhearth e Victor Hayden andarono con i propri strumenti in mezzo alle erbacce a circa 50 metri dalla casa. Si sentono, infatti, il fruscio delle foglie, un cane che abbaia in lontananza e due bambini che erano presenti durante la sessione di registrazione.
Il fine dell’opera di Beefhearth, da un punto di vista musicale, torno a ripetere, è quella di indurre l’ascoltatore a valutare i propri limiti. L’immensità di questo lavoro si scopre con il tempo. Il problema della difficoltà a comprendere l’album risiede, a mio avviso, nel fatto che i canoni musicali cui siamo abituati, rimangono i criteri di giudizio per misurare ciò che sentiamo.
All’epoca molti sostenevano che quel disco fosse il risultato della cultura della droga. La stampa specializzata stroncò il lavoro immediatamente.
Don Van Vliet viveva nel deserto del Mojave senza radio, né televisione, abbandonò la musica nel 1982 per dedicarsi all’arte. Soffriva di sclerosi multipla e morì il 17 dicembre del 2010 a 69 anni. A quarant’anni dalla sua pubblicazione Trout Mask Replica è menzionato tra i primi dieci dischi della storia, in ogni classifica dei cento migliori.