
Can | Ege Bambyasi (1972)
Dopo lo spiazzante Tago Mago, i Can trovano la ricetta perfetta del krautrock: la zuppa è così servita
Ege Bamyasi è il quarto album in studio dei Can, dopo il celeberrimo Tago Mago. La copertina, dall’aspetto d’editoria culinaria, rappresenta una lattina di gombi e il titolo (in turco) rimanda proprio a questa verdura esotica. Oltre a essere un chiaro gioco di parole sul nome della band (lattina, in inglese), l’artwork si ricollega alla passione della band per la musica tradizionale, ma porta subito alla mente anche il più noto contenitore di latta della storia: la merda d’artista di Piero Manzoni. Per mette a punto la nuova ricetta, ritroviamo ancora la formazione che aveva scalfito il colossale Tago Mago: i due ex-alunni di Stockhausen e fondatori della band, Holger Czukay (basso) e Irmin Schmidt (tastiere), il più giovane Michael Karoli (chitarra, shehnai), il jazzista “half-man, half machine“ Jaki Liebezeit (batteria) e, infine, l’inimitabile Damo Suzuki (voce).
Rispetto al precedente capolavoro, Ege Bamyasi è sicuramente un album più accessibile: la lunghezza delle tracce è ridotta e le sonorità sono più votate alla “forma-canzone” che alla grande epopea allucinogena del krautrock. Ma questa presunta facilità d’ascolto non lo rende affatto un disco banale; a proposito dei Can, il giornalista David Stubbs nelle sue note di copertina per la ristampa in CD scrive, a ragione, che è “il suono di una band assolutamente a proprio agio con se stessa, con tutti i suoi vari elementi fusi insieme come da un processo di telecinesi collettiva. Una band che poteva andare dove voleva, quando ne aveva voglia“.

Can
Rilasciato nel 1972 sotto etichetta United Artist, l’album ha la sua imperiale cavatina con Pinch, una jam session che inizia con i battiti al metronomo di Liebezeit e ai più farà dire: altro che un allontanamento da Tago Mago! In verità, pare poi abbastanza chiaro come tutto qui sia contenuto e piacevole e, nonostante si faccia fatica a trovare una melodia, suona come se ogni cosa fosse al suo posto, in mezzo al synth soffocante di Schmidt, alle percussioni funky di Liebezeit e, soprattutto, alla voce di Suzuki, che canta come un Iggy Pop giapponese in preda a possessioni demoniache.
Dopo un antipasto ipercalorico è in arrivo la litania ipnotica e miorilassante di Sing Swan Song: “il canto del cigno”, d’altronde, deriva dalla mitologia greca, un topos che sancisce l’ultimo lavoro prima del declino dell’artista. One More Night offre poi un po’ di respiro prima della tempesta con una world music ante-litteram, ma il cammino verso il letto è ancora lungo: dietro la porta troviamo infatti Vitamic C, un orecchiabile brano funk dalle scintille psichedeliche in cui Damo dà il meglio di sè nel reiterato ritornello (“Hey you, you’re losing, you’re losing, you’re losing, you’re losing your vitamin C!).
Nella stridente musica concreta di Soup ritroviamo invece un’altra pericolosa jam session e un ritorno ai suoni più puri del Krautrock, con una sezione in cui si rasenta pericolosamente la titanica “Hallelulwah” di Tago Mago, ma i suoi 10 minuti rendono la creatura piuttosto docile e addomesticata.
Le ultime due tracce sono ciò che più si avvicina alla forma-canzone: si tratta della lillipuziata I’m so Green, con chitarra energica e ritmi contagiosi, e la celebre Spoon, una hit che non sa di hit, che ha venduto 300 mila grazie al telefilm poliziesco “Das Messer” che le diede una discreta fama in patria. Si tratta di una canzone intrisa di una melodia distinta e infestante, egemonizzata dai ritmi tribali di Jaki Liebezeit, con un testo ermetico e impenetrabile. Una curiosità: secondo le note di copertina, la traccia ha permesso alla band di aggiornare il loro studio e dare molto più tempo a Schmidt e Suzuki di giocare a scacchi, la loro grande passione.
Se Tago Mago è un capolavoro criminale, che seduce l’ascoltatore in preda a qualche arcana forma di sindrome di Stoccolma, Ege Bambyasi rimane probabilmente l’album perfetto dei Can, che hanno saputo racchiudere nel loro barattolo vegano molte più idee concrete e meno acido lisergico, trovando una ricetta più umana al loro soprannaturale krautrock.