
Can | Tago Mago (1971)
Un oscuro viaggio verso l'inferno teutonico, tra salmodie diaboliche, isterie strumentali e gli insegnamenti di Stockhausen
Bertolt Brecht una volta scrisse che “l’arte non è uno specchio per riflettere la realtà, ma un martello con cui darle forma“. Per fare questo, per forgiarla e darle plasticità, bisogna cominciare innanzitutto con il togliere l’eccesso dal marmo, scolpendo e lavorando per sottrazione e, perchè no, anche ed indirettamente per distruzione.
Per dare forma all’arte, si potrebbe quindi arrivare a dire – in un paradossale sillogismo – che bisogna per prima cosa distruggerla: questo è un po’ lo spirito della musica dei Can, la cui devastante polivalenza viene palesata subito dal nome, che nella sua accezione anglosassone più nota significa “lattina”, ma che allude anche ad “anima” in turco e “sentimento” in giapponese; inoltre, può rimandare perfino all’ambiguo acronimo di “Comunismo Anarchia Nichilismo”.
Nei fatti, Tago Mago è il quarto album dei Can, anche se nella loro discografia ufficiale appare come terzo, dato che il loro debutto Delay sarà rilasciato soltanto nel 1980. Prendendo spunto da alcuni lungimiranti compositori del XX secolo (Karlheinz Stockhausen, György Ligeti, John Cage), la formazione presente in questo mastodontico disco fu quella classica, con i due ex allievi di Stockhausen Holger Czukay al basso (che afferma, tra l’altro, di essere un “vero nipote” di Guglielmo Tell) e Irmin Schmidt alle tastiere, il giovane Michael Karoli alla chitarra, il jazzista “mezzo uomo mezzo macchina” Jaki Liebezeit alla batteria ed il busker giapponese Damo Suzuki alla voce. Ora, con una domanda che suona come l’introduzione di una barzelletta scontata e vagamente razzista, una qualsiasi persona che non conosce la storia dei Can, leggendo questi nomi si potrebbe chiedere: cosa ci faceva un giapponese in un gruppo di tedeschi nel 1972? La risposta è interessante: fu un coinvolgimento improvvisato. Negli anni Sessanta Damo approdò in Europa suonando per le strade di Monaco, e proprio fuori da un bar della famosa città bavarese fu notato da Czukay e Schmidt. Dopo l’abbandono del cantante Mooney sotto consiglio insistente del suo psicologo (il gruppo sarebbe stato pericoloso per la sua sanità mentale!), il giapponese fu ingaggiato come sostituto proprio durante quel pomeriggio, cantando con la band quella stessa sera.

i Can
Tago Mago fu rilasciato dalla United Artists nel 1971 con la copertina di Ulrich Eichberger ed era in origine un doppio LP, con un tempo di esecuzione colossale di 73 minuti. Bisogna innanzitutto sottolineare come questo “doppio bianco” sia in realtà arte nera, nel senso più puro del termine – l’intero disco è, infatti, un’esperienza mistica e psicotica: il tossico Virgilio della situazione è lo straniero in patria Damo Suzuki, tra placidi borbottii e spaventose urla luciferine e, non a caso, il titolo è preso da uno scritto del celebre satanista Aleister Crowley (ma è anche il nome di una paradisiaca isola spagnola, se può essere di conforto).
Paperhouse apre la porta degli inferi con un magistrale inganno, una opening track che si rivela inizialmente come un bel pezzo melodico dove i tamburi impostano il flusso della canzone, per poi impelagarsi in una lunga ragnatela strumentale e contorta, fronteggiata soltanto dalla aracno-chitarra di Karoli.
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L’allucinogena Mushroom cambia totalmente volto, truccandosi come un salmo alienante di jazz industriale in cui, ancora una volta, spiccano le percussioni di Liebezeit, qui ipnotizzate da un’inquietante trama in 4/4 che fornisce uno sfondo psichedelico piuttosto basico (quasi alla Neu)!, in contrasto con un testo altamente dannoso. Rasenta invece le visioni kobaiane dei Magma Oh Yeah, dove il primo verso venne registrato al contrario, mentre il secondo viene cantato in “Engrish”, con lo strano accento inglese di Damo che poi passa alla madrelingua giapponese. Si inizia con un’esplosione apocalittica ed il rumore della pioggia, per poi infittirsi in una nebbia altamente sperimentale in cui il ritmo è molto forte, con un basso martellante e l’eco sinistro delle chitarre, che risuonano spaventose in questa sconcertante foschia.
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La titanica Halleluhwah è un baccanale funk di 18 minuti in cui Liebezeit è al suo apogeo, nonostante risulti un po’ ripetitiva nella struttura di base, dove il battito del tamburo si reitera quasi ininterrottamente con solo qualche lieve variazione, con il basso di Holger che pare il collante fluido di questa contorta maratona musicale.
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L’Hare Krishna diabolico di Aumgn è di gran lunga il pezzo più spaventoso presente sul disco (e non solo); gli effetti sonori acidi di Irmin Schmidt sono prelevati direttamente dalla mente oscura di Aleister Crowley: si tratta di un brano contorto, con un tripudio di vocalizzi monastici e urla cavernose che si fanno strada tra suoni elettronici raccapriccianti, in una foresta compositiva funesta priva di qualsiasi melodia e che ha aperto la strada ad esperimenti sonori simili da parte di Cluster, Tangerine Dream e Klaus Schulze.
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E proprio quando pensi di averne avuto abbastanza, Peking O ti colpisce da tergo, con una tagliente elettronica psichedelica completamente “dada”, rotta solo dai balbettii demoniaci di Damo Suzuki, una pseudo-melodia in cui l’irrazionalità sale ad un livello inumano quando subentra un pianoforte disarmonico ed altri rumori dalla indubbia provenienza: il volume si alza, il ritmo accelera, il tamburo avanza incessantemente senza pietà e una voce assassina grida nella completa demenza e ferocia in preda all’isteria collettiva.
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Nel dilemma liquido finale di Bring Me Coffee or Tea deciderete esausti di aver invece assolutamente bisogno di una tisana rilassante: essa assume un atteggiamento nichilista ed omicida verso tutte le strutture musicali, dopo le violenti sevizie del nostro senso di armonia perpetuate fino alla traccia precedente. Questo brano risulta come un risveglio dal più malvagio degli incubi immaginabili, in cui tutti i postulati dati per reali vengono meditati con la fronte corrugata, fino ad essere messi prepotentemente in discussione. La sezione ritmica si diversifica qui dal resto del disco, risultando meno caotica e più tribale, e sembra essere lì piuttosto per aiutare l’umore generale che per definirlo, delegando il difficile compito alla chitarra di Karoli (potenziata dal sitar) e ai lamenti orientali di Suzuki. Così finisce, senza fanfare o libertà: una prigionia da cui sarà difficile liberarsi.
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I Can furono un gruppo di musicisti di talento, pionieristici e disinibiti, che trovarono le strutture melodiche limitative e cercarono quindi di plasmare un’arte che fosse più globale e meno succube dei suoi dogmi. Alcuni contrassegnano questo disco come generico Krautrock, altri lo marchiano come psichedelia, altri ancora si focalizzarono sugli influssi del maestro Stockhausen e di John Cage filtrati attraverso gli insegnamenti lisergici di Timothy Leary. Sopra ogni etichetta, la qualità musicale dei Can si riduce a due misure: la prima è il folle vocalist Damo Suzuki e la seconda è la densa sezione ritmica, ed in Tago Mago entrambi sono al top della forma.
Per ascoltare e godere appieno di quest’album bisogna mantenere una mente aperta come un paracadute e dargli almeno un paio di giri: alcune parti potrebbero risultarvi noiose e/o ripetitive, ma saranno poi spente dalle sezioni più sperimentali ed intriganti, che scavano a mani nude ferocemente nell’Io più profondo. Julian Cope scrisse nel suo Krautrocksampler che Tago Mago “suona solo come se stesso, e come nessuno prima o dopo” e penso che questa breve epigrafe renda onore a questo oscuro capolavoro, un viaggio di andata e ritorno in prima classe verso l’inferno teutonico più agghiacciante.