
Bridgend | Rebis (2017)
Scenari post-rock fanno da sottofondo a un incessante dialogo filosofico
L’eterno dilemma tra partire e restare, tra affrontare perigliosi e ignoti percorsi o restare al sicuro nel proprio mondo. La domanda è eterna e la risposta è quasi impossibile, perché una volta raggiunto l’obiettivo, ve ne è sempre uno nuovo all’orizzonte, in una continua ricerca di risposte a domande che non hanno soluzioni a portata di mano. Sono concetti che sfidano l’essenza stessa dell’animo umano, la costante ricerca di un qualcosa che non si conosce – “l’osceno piacere della ricerca” – nell’apparente illusione che una fuga verso mondi nuovi possa darci risposte, quando forse invece le risposte non hanno nulla a che vedere col luogo geografico in cui casualmente ci si trova. La domanda più frequente – come quella dei contadini di “Fontamara” – è “Che fare?”, la perenne incertezza tra l’ansia di nuove scoperte e la perdita di ciò che si ha già.

Bridgend
Il progetto post-rock dei Bridgend, ideato dal musicista Andrea Zacchia (chitarra e synth) e suonato con la collaborazione di Gabriele Petrillo (basso) e Daniele Naticchioni (batteria), usa la metafora dei tre personaggi ripresi dalla filosofia hindu. Il protagonista è Rajas, combattuto tra il restare e il partire, che si pone la fatidica leniniana domanda “Che fare?”; Sattva rappresenta la saggezza che spinge Rajas a ritrovare se stesso superando le proprie paure e i propri limiti; infine, c’è Tamas, che consiglia a Rajas di non rischiare e rappresenta l’indolenza. I tre atti di cui è composto “Rebis” seguono le tre fasi del percorso di Rajas; il dubbio, la scelta e le conseguenze.
Lo strumento utilizzato non è certamente nuovo; spoken word con sottofondo post-rock – genere che in Italia ha protagonisti di tutto rilievo (Spartiti, Emidio Clementi, Massimo Volume, Psycho Kinder) – che però viene in questo caso arricchito da una componente melodica neo-prog alla Marillion più marcata, abbastanza evidente nei vari momenti in cui i synth si dilatano per creare lunghi tappeti sonori eterei come in “Rebis” o in “Archè“, o nei vorticosi assoli di tastiera di “Ys”. Il viaggio da Ys all’isola di Rebis riemersa dagli abissi si dipana tra incessanti dialoghi e riff di chitarra tipicamente post-rock in stile Mogwai (“Rendezvous“, “Threshold“) fino alle lunghe fughe strumentali di “Zain“.
Se il post-rock ci ha abituati, in vari dei suoi protagonisti, a imponenti muri di suono (Godspeed You Black Emperor!), rimandi hardcore (Slint, June of 44), destrutturazioni (Main, Stereolab) o a oscuri paesaggi ambient (Labradford), i Bridgend ricercano invece costantemente la melodia, come se i Mogwai incontrassero i Marillion. Da questo punto di vista si potrebbe dire che l’ambizione (tanta) e il coraggio non siano andati di pari passo.
Evocativo e ambizioso, il progetto di Zacchia probabilmente piacerà al regista della “trilogia della fuga” Gabriele Salvatores.
Pubblicato il 03/05/2017 su Ondarock.