
Brian Eno | Music for Airports (1978)
La non-musica del non-musicista per non-ascoltatori
“Negli ultimi tre anni mi sono interessato all’uso della musica come atmosfera, ho quindi iniziato a usare il termine Ambient Music. Un ambiente è definito come un’atmosfera o un’influenza che ci circonda. La mia intenzione è di produrre pezzi originali per momenti e situazioni particolari, con l’idea di costruire un piccolo ma versatile catalogo di musica ambientale adatta ad un’ampia varietà di stati d’animo e di atmosfere. Mentre le compagnie di musica preconfezionata (ps: Brian Eno si riferisce alla musica Muzak) procedono dalla base di regolarizzare gli ambienti mettendo a tacere le loro idiosincrasie acustiche ed atmosferiche, la musica Ambient intende metterle in evidenza. Mentre la convenzionale musica di sottofondo è prodotta strappando via ogni senso di dubbio e incertezza, la musica Ambient trattiene queste qualità. E mentre la loro intenzione è di “far brillare” l’ambiente aggiungendogli stimoli (così supponendo di alleviare la noia), la musica Ambient intende indurre calma e uno spazio per pensare. La musica Ambient deve essere tanto ignorabile quanto interessante”
Così Brian Eno, nel 1978, parla dell’album che aveva appena pubblicato, Music for Airports. Come vedete siamo di fronte quasi a un manifesto di una nuova musica in cui Eno ne descrive le caratteristiche e, oserei dire, ne detta le regole. E’ quasi come se, riconscendosi come il “creatore” della musica ambient ne delimitasse i confini per poter stabilire cosa sia e cosa non sia ambient. Ma il pensiero di Brian Eno è vero oppure si attribuisce un merito che non gli spetta totalmente? La domanda non è semplice come potrebbe sembrare in quanto la risposta, come spesso succede, non può essere categorica nè in senso affermativo nè negativo. In effetti quello che si può dire con certezza è che il “parto” della musica ambient ha avuto una gestazione lunghissima, forse addirittura iniziata all’inizio del secolo. Già Erik Satie (1866-1925) aveva composto composizioni per pianoforte, criticatissime all’epoca, ad esempio Vexations (addirittura del 1893) ma non solo, dove i tempi erano estremamente dilatati, la musica ridotta, sottratta come mai era stato fatto. La cosa ai contemporanei apparì subito strana, quasi incomprensibile, appunto perchè tracciava una strada nuova. Con questo non si vuole dire che Satie abbia qualcosa a che fare con l’ambient, dico solo che se Eno è stato il padre, Satie forse è stato il bis-nonno.
Si potrebbe continuare con il minimalismo di La Monte Young o di Terry Riley che estremizza il concetto di ripetizione ossessiva, o con la musica concreta di Pierre Schaeffer o Pierre Henry che utilizza suoni ripresi da oggetti quotidiani riducendo la necessità dell’autore di possedere una grande tecnica musicale ma chiedendogli più che altro di avere una grande fantasia. Non si può non accennare alla musica Muzak, tra l’altro è proprio Brian Eno a farlo. Il Muzak, pur con fini prettamente commerciali e con bassissimi valori artistici, pur nella sua semplicità (serviva da accompagnamento per gli avventori di negozi o dei primi grandi magazzini) da l’idea per la prima volta di una musica di sottofondo, una musica che riempie uno spazio, che impedisce all’avventore di annoiarsi, che lo accompagna nelle sue faccende tenendogli compagnia in modo tale che neanche se ne accorga. In sintesi, crea una musica da non ascoltare. A questo si può aggiungere certamente la musica cosmica tedesca di Schulze e dei Tangerine Dream che pochi anni prima aveva prodotto arditi esperimenti, e i primi album elettronici dei Popol Vuh.
Quindi perchè Brian Eno è ritenuto dai critici musicali il creatore della musica ambient? Semplicemente perchè Eno riesce a prendere qualcosa da ognuna delle sopracitate esperienze. Da Erik Satie prende l’idea di una musica a cui le note vengono sottratte sino all’osso, una musica talmente scarnificata da essere da alcuni considerata una non-musica. Da La Monte Young prende l’estrema dilatazione del tempo e l’idea che del ritmo se ne può anche fare a meno. Dalla musica concreta prende l’idea che per essere musicisti si deve essere semplicemente geniali, il sapere suonare uno strumento è solo mera tecnica, a quello possono pensarci i veri musicisti, il genio è il non-musicista che scrive e crea la musica, il musicista ben preparato tecnicamente la esegue. Infine dalla musica Muzak trae l’idea di una musica da non ascoltare, o perlomeno da non ascoltare obbligatoriamente, la decisione spetta all’ascoltatore. La musica diventa come un piccolo oggetto di arredamento presente in una stanza, se si vuole si può stare a osservarlo anche con estrema attenzione, se non si vuole si può comunque stare in quella stanza senza neanche guardarlo, proprio come se non esistesse. Come dice Eno, l’ambient può essere tanto ignorabile quanto interessante. Ecco la non-musica dei non-musicisti per i non-ascoltatori. La differenza con la musica Muzak la spiega proprio Eno nelle sue parole. Mentre il Muzak riempe gli ambienti senza fare alcuna differenza tra loro, li rende tutti uguali, li appiattisce, li deruba delle loro peculiarità, la musica ambient “descrive” un ambiente trattenendo le sue caratteristiche originali, anzi li esalta e può farlo anche con uno stato d’animo o un sentimento. Mentre il Muzak deve allietare il non-ascoltatore, deve tranquillizzarlo, distrarlo, fargli compagnia, “eliminare il silenzio”, la musica ambient può tranquillizzare o anche intimorire, far riflettere o ricreare un ambiente in cui avvolgere l’ascoltatore. La musica ambient non deruba l’ambiente delle sue caratteristiche come fa la musica Muzak, bensì trattiene e descrive le sue qualità.
Qui nasce Music For Airports. Brian Eno ha in mente la musica, ha capito quali devono essere le sue caratteristiche, dopo di che contatta i veri musicisti per poter realizzare il suo progetto. Tra questi spicca Robert Wyatt che suona il piano nel primo brano (1/1), probabilmente il migliore dell’album. Sono sedici minuti ripetitivi, col piano di Wyatt lento, ma con occasionali brevissime accelerazioni che lo rendono un misto di estasi e di attesa spasmodica. Una delle collaborazioni principali che Wyatt ha avuto al di fuori della sua splendida carriera solista.
Il secondo brano (1/2) è un susseguirsi di cori femminili elettronici, mentre il terzo (2/1) è una via di mezzo tra i due, brevi note di piano accompagnate da un magma di cori elettronici. Chi conosce la musica ambient contemporanea si può accorgere già dopo un breve ascolto quanto sia influente 2/1.
Più breve ma non meno valido il quarto e ultimo brano, 2/2 segnato da sintetizzatori lenti e onirici. Ma stavolta il sogno sembra poter diventare un incubo, non lo diventa mai ma si ha l’impressione che potrebbe farlo. L’ambiente che crea è volutamente ambiguo. Anche qui l’influenza è enorme. E se l’influenza può essere usata per un giudizio complessivo, questo non può che essere il più alto possibile.