
Bon Iver | 22, A Million (2016)
La svolta elettronica di Bon Iver che conferma di non essere mai stato un folk-singer ma un musicista di primissimo piano della scena contemporanea.
Abbiamo dovuto attendere ben cinque anni per poter ascoltare l’attesissimo terzo album di Bon Iver (Justin Vernon), musicista che dall’esordio del 2007 (“For Emma, Forever Ago“) al secondo album del 2011 (“Bon Iver, Bon Iver“) si è sempre posto un passo avanti rispetto alla scena indie internazionale; questo vale sia per gli inizi alternative folk, sia per i successivi tentativi di arricchire la sua musica con suoni potenti e solenni che – a maggior ragione – per questa coraggiosa svolta elettronica che mostra un’artista capace di rinnovarsi e di non ripetere strade facili o già battute; semplicemente capace di non suonare quello che altri si aspettano in base a stereotipi precostituiti. Piaccia o non piaccia, Bon Iver è un musicista di primissimo piano della scena indipendente internazionale.

Bon Iver
Bon Iver si toglie in un attimo di dosso l’etichetta di boscaiolo solitario che scrive le sue canzoni in una baita sperduta tra le montagne, come un folk singer dei nostri giorni; il nuovo armamentario elettronico, pieno di vocoder, synth (ma anche trombe e sax) rende “22, A Million” un album spiazzante, dai ritmi e voci robotiche, destrutturato in ogni sua parte; un lavoro che spazza via ogni traccia del Bon Iver musicista folk (se mai lo sia stato) per trasformarlo in musicista post-moderno, cantore alieno di una nuova forma sonora da plasmare e costruire. Quel che è certo è che siamo di fronte a un punto di non ritorno; se sarà un momento di transizione o un punto di arrivo, questo solo il tempo potrà dircelo. Elemento chiave sembrerebbe anche l’incomunicabilità della nostra epoca; dai testi enigmatici ai titoli incomprensibili, dalla destrutturazione musicale alle voci deformate da quelli strumenti che proprio la modernità ha creato, tutto porta a questa ambigua dicotomia. In un certo senso Vernon riesce a essere allo stesso tempo intimista e cacofonico, comunicativo nell’impossibilità di esserlo, melodico e sperimentale, angelico e meccanico, robotico ma con un’anima grondante sentimenti e poesia. Se qualcuno pensa che questo sia semplicemente pop, dando a questo termine un senso dispregiativo, probabilmente non vede quanto quest’album sia innovativo, sperimentale e colto (termini che difficilmente possono essere accostati ai classici album pop contemporanei).

Bon Iver
L’inizio morbido di 22 (OVER S∞∞N) mostra già un distacco con la produzione precedente ma ancora non troppo netto.
Con la successiva “10 d E A T h b R E a s T ⚄ ⚄” siamo in mondi sintetici distorti e cacofonici, dove l’unico elemento (post)umano rimane la voce distorta dal vocoder.
La voce di Bon Iver si trasforma nella straziante poesia elettronica di 715 – CR∑∑KS, dove la voce – pur barbarizzata – fa trapelare pathos e un umanissimo senso di tragedia.
Altrove sembra di ritornare a mondi più familiari, fino al momento di quella che è probabilmente la massima suggestione; preceduto dalle sonorità minimali di “21 M♢♢N WATER“, si giunge al momento in cui l’elettronica sembra cedere, sfaldarsi nei suoni del sax di Colin Stetson, per poi tornare lenta e onirica nella poesia di “8 (circle)“, brano a suo modo classico e quindi differente dal resto.