
Alan Sorrenti | Aria (1972)
Lo sbalorditivo esordio di Alan Sorrenti, una visione onirica e bucolica colma di suoni internazionali ed atmosfere psichedeliche
Nel 1972 Alan Sorrenti si presentò con un album profondo e visionario, che nulla lasciava trapelare sul suo sordido futuro nella disco-music italica. Prodotto da Corrado Bacchelli e Bruno Tibaldi e registrato tra Parigi, Roma e Vallauris (in Costa Azzurra), Aria è il primo disco dell’italo-gallese, dove le sue radici mediterranee-melodiche si ritrovano impigliate anagraficamente con l’altrettanto antica ed affascinante tradizione celtica, grazie anche alla mediazione dell’eclettico cantautore Shawn Phillips, all’epoca residente a Posillipo. All’uscita di Aria, la voce di Sorrenti venne subito paragonata dalla stampa ai titanici Peter Hammill e Tim Buckley (che in quel periodo godettero di grande fama in Italia) per le armonie e l’estensione vocale, ma forse i migliori confronti sulla scena nostrana sarebbero stati con la sorella Jenny (anch’essa cantante nei Saint Just), Franco Battiato (almeno per quanto concerne il sapore orientale di molte delle sue performance vocali) e, soprattutto, i dimenticatissimi Juri Camisasca (scardinato, però, da tutte le sue angosce esistenziali) e Claudio Rocchi.
Il brano centrotavola Aria è un soave poema psichedelico che riempie tutta la prima parte del disco, in quasi venti minuti di trance. Con un Tony Esposito alla batteria al meglio delle sue capacità improvvisative, una fetta inebriante di musica è dominata dal violino sensuale di Jean-Luc Ponty (già collaboratore di Frank Zappa) e dall’armonia metafisica dell’organo di Albert Prince, pellicole ideali per la voce impennata di Sorrenti, che diviene uno strumento a sé, in una pericolosa marea ritmica di onde sinusoidali: la sua voce, infatti, si muove su e giù in un modo che può sembrare casuale ma non lo è, esplorando luoghi che sembrano fuori dalla sua area di ripartizione naturale e fornendo, in tal modo, uno sterminato repertorio di vocalizzi, belati e gemiti che tessono un arazzo vocale decisamente pregiato.
Calma momentaneamente le acque il miraggio acustico di Vorrei incontrarti, una ballata pastorale edita come singolo, con la presenza della fisarmonica che rende tutto ancora più romantico, a sottolineare il desiderio di Alan di inseguire qualcosa di così bello da sembrare irreale, quasi un’illusione.
Il delirio decadente de La mia mente viene sottolineata da un supremo Vittorio Nazzarro alla chitarra ed enfatizzata ulteriormente dal mellotron di Albert Prince, con uno spiccato retrogusto progressivo, in una confusione cerebrale costruita, passo dopo passo, da una serie di strumenti che suonano individualmente senza mai guardarsi negli occhi. Testo, voce e musica in un unisono discordante disegnano perfettamente l’idea di una mentalità complessa e labirintica (“la mia mente è un pallone che vaga in un soffice sogno e non ritorna più sulla terra e la mia gente lo indica e la mia gente lo lincia, sì lo lincia. Il primo colpo lo smuove, il secondo lo abbatte”).
Nell’estasi gotica di Un fiume tranquillo la scena è poi tutta per la tromba di Andrè Lajdli e per il contrabbasso di Tony Bonfils, mentre ancora una volta siamo bombardati da tutti i lati dalle melodie vocali senza fine di Alan Sorrenti; in questa traccia siamo, infine, in grado di ascoltare una canzone ancora più intensa e marcatamente progressiva, anche a causa dell’utilizzo dei sintetizzatori: ci sono degli istanti in cui la voce di Alan ricorda seriamente quella di Peter Hammill, anche per il testo dai tetri connotati: “La mia scarpa la troverete vicino a un marciapiede e il mio corpo lontano nelle sale di un dormitorio, la mia mano in un fosso e il mio occhio e il mio occhio nel cielo“. A differenza dei Van Der Graaf Generator qui non è però presente il sassofono, ma la strumentazione a sostegno di Sorrenti riesce comunque a plasmare lo stessa tormentata e nostalgica atmosfera dei brani di Hammill.
Marco Ferranti in una presentazione di Aria scrisse le seguenti righe, che rendono la musica del primo Sorrenti in maniera impeccabile: “Tutto ad un tratto sono entrato nel mondo di Alan, ne ho avvertito il canto dolce, il pianto amaro delle ironie, delle favole moderne che ci riportano ai lontani e preziosi simbolismi, tutta la strana e suadente comunicativa universale, la sete esistenziale. […] Un disco veramente unico quest’ “Aria”, nel tempo stesso scorrevole e unito come un fiume, e studiato e cesellato come un mosaico; la costruzione strumentale non ha davvero precedenti, con le infinite variazioni crea per la voce incredibile di Alan spazi vastissimi, pieni di suggestioni e atmosfere ora rarefatte, sognanti, bucoliche, ora nervose, opprimenti” (da “Ciao 2001″ n. 33-34 del 27/8/1972).
Cosa spinse Alan Sorrenti all’imbarazzante carriera che lo consacrò alla musica disco-pop? Alla lunga, possiamo ipotizzare, le sue sperimentazioni sicuramente lo allontanarono dal grande pubblico, che nella tradizione melodica italiana pretendeva ben altri ingredienti per il successo; ufficialmente, furono tuttavia degli importanti problemi alla voce ad impedirgli di portare avanti la sua filosofia “progressiva” dopo i primi tre dischi. Lasciando da parte le apologie, dall’accompagnare in tournée i Pink Floyd al divenire il re indiscusso delle discoteche il passo è stato perversamente breve: Alan Sorrenti passò alla storia, parafrasando Battiato, come “un figlio delle stelle, pronipote di sua maestà il denaro”. Noi lo ricorderemo così, con Aria: il resto è silenzio, per concludere come Amleto.