
Un ricordo di Keith Emerson
La pistola ha abbaiato per un’ultima volta… Keith Emerson muore di sua propria mano nella casa di Santa Monica, molti dicono stroncato da una profonda depressione dovuta all’infausta diagnosi di una brutta malattia che lo aveva colpito già da qualche tempo alla mano destra. Muore un eroe e ci lascia orfani di una musica sublime e carnale, intensa, moderna e permeata di un’acuta intelligenza. Miglior tastierista e pianista della sua epoca gli fu sufficiente mettere insieme un trio, i celeberrimi Emerson Lake & Palmer per creare capolavori immortali che saranno radice e nutrimento di un intero movimento musicale, il progressive, che attraverserà, con alterne vicende quasi un decennio negli anni Settanta. Molti musicisti in quel periodo compivano importanti tentativi di allargare i confini della musica alla quale sentivano di appartenere, chi il blues, chi il jazz, e chi come lui la musica classica, ma non furono in molti a saper mescolare una dose quasi letale di musica sinfonica al rock primevo, spezzandone gli algoritmi in un caleidoscopio iridato e divino, dal soffio possente e superumano.

Credit: Photo by Ray Stevenson/REX
Noi lo ricordiamo quasi nascosto dietro strumentazioni elettroniche torreggianti mentre si aggira da un controller all’altro come un demonio, accoltellando nel vero senso della parola lo strumento quasi a volerne catturare l’ultimo respiro; a lui il dottor Robert Moog affida la sua invenzione più recente, un sintetizzatore monofonico modulare, che da lì in poi diventerà un totem al pari di altri storici strumenti elettronici come gli Hammond o i Farfisa e a lui varrà l’appellativo di “Signore del Moog”… e naturalmente c’erano le esagerazioni tipiche di una certa grandeur di quel periodo, di quando, cioè, gli ELP avevano decine e decine di roadies al seguito e Carl Palmer poteva impegnare una persona solo per spazzolare il tappeto che teneva sotto la sua mastodontica batteria… e molti di noi si ricorderanno dello storico concerto allo Stadio Flaminio di Roma dove, durante il bis, i canonici fuochi d’artificio vennero sparati ad altezza d’uomo.
La copertina di Tarkus, poi, disegnata da William Neal, è senz’altro una tra le immagini più suggestive dell’iconografia discografica di tutti i tempi; disco senza dubbio, ad oggi, ancora controverso, un concept capriccioso e frammentario, per molti versi incompleto ma che contiene una sontuosa suite di venti minuti firmata da Keith Emerson, manifestazione fluida di rock progressivo alto, di grande potenza espressiva… e gli altri loro album, tutta la prima parte della loro discografia con Pictures at an Exhibition in testa, quasi un manifesto d’intenti del rock sinfonico… Come descrivere la felicità di un inno come “Lucky Man“, contenuto nell’album di debutto, che porta il loro nome, del 1970. Potremmo stare per ore a parlare (e a scrivere) senza stancarci nella ricerca di aggettivi fuori dall’ordinario per spiegare la storia di questo supergruppo, e tuttavia, come sempre, un dio limaccioso ci mette la coda e il progressive finisce agli albori del punk (se vogliamo tagliare con l’accetta la storia della musica contemporanea), diventa genere di nicchia, e chi non riesce a riconvertirsi è destinato a soccombere e scomparire dalla scena musicale internazionale.
Gli ELP si sciolgono per volontà dello stesso Emerson e tranne per alcune sporadiche reunions un po’ nostalgiche non sapranno più ricreare la magia degli anni d’oro della loro carriera. Il musicista inglese – era infatti nativo di Todmorden, nello Yorkshire dove vide i natali il 2 novembre 1944 – peraltro continuò nella sua ricerca di nuovi modelli stilistici e la sua incredibile tecnica gli permise di ampliare ancora la sua produzione artistica: il successo internazionale Honky Tonk Train Blues rimane ancora ancora oggi l’esempio migliore della sua produzione post- ELP (in Italia fu la sigla di un celebre programma televisivo della fine degli anni Settanta, Odeon dove – e per puro paradosso – la generazione degli anni Sessanta conobbe, per la prima volta nel nostro Paese, il punk grazie ad un servizio giornalistico contenuto in una delle puntate di quella trasmissione) e in Italia lo ricordiamo anche per la colonna sonora che egli volle scrivere per il film di Dario Argento “Inferno”.
Costretto dalla malattia che lo aveva colpito a diradare i suoi impegni musicali aveva comunque in progetto un tour in Giappone da solista ma evidentemente la prognosi di un ulteriore peggioramento delle sue condizioni di salute ha minato il suo coraggio già indebolito dalla depressione spingendolo al gesto estremo di darsi la morte. Ci rimangono nel cuore le sue note, anche quelle eccessive, le cavalcate sulla schiena del suo drago elettronico e le infinite sciarade di suoni che ingioiellavano le sue idee.
Addio Keith